10.

 

NON CI VEDE NESSUNO

 

Julián

 

Martín scarrozzava Sebastian al Nordic Club, in banca, in uno studio di avvocati e per giri più lunghi. L’Angelo Nero passava molto tempo nel sedile posteriore della macchina a studiarsi delle carte. Martín lo accompagnava anche al ristorante sulla scogliera. A volte mangiava con lui e altre lo aspettava fuori. Fu in uno dei momenti in cui era rimasto da solo che ne approfittai per avvicinarmi al suo tavolo. Gli dissi il mio nome completo e gli chiesi se potevo sedermi un momento.

Come immaginavo, Martín ci raggiunse di corsa, ma Sebastian gli fece cenno con la mano di non disturbarci. Si comportava proprio come avevo previsto, da vero gentiluomo. Martín gli si avvicinò all’orecchio e gli sussurrò qualcosa mentre mi guardava. Sebastian fece una smorfia di disgusto, non so se per aver udito la voce di Martín così da vicino o a causa mia.

Mi presentai formalmente. Gli dissi che ero un repubblicano spagnolo che era stato a Mauthausen durante l’ultimo anno di guerra e che dopo mi ero arruolato in un’organizzazione dedita a dare la caccia ai nazisti. Mi ascoltava con molta attenzione.

Prese un’ostrica dal vassoio coperto di ghiaccio tritato e mi invitò con la mano a fare lo stesso. Io feci un cenno di rifiuto sempre con la mano. Mi offrì dello champagne e lasciai che me ne servissero un bicchiere, ma non bevvi.

«Non mi fa bene», dissi, e questo era certamente vero.

«Mi dispiace che abbia passato tutto questo», fece lui.

«Davvero?» domandai con il suo stesso tono, un tono da conversazione normale, addirittura amichevole. A qualcuno saremmo sembrati vecchi conoscenti, il che in qualche modo era vero.

«Perché non dovrebbe dispiacermi? Io non mi sono mai proposto di far soffrire la gente. Lottavo per un mondo migliore. Il mondo migliora sempre perché alcuni prendono le redini e conducono gli altri. Il popolo generalmente non sa quello che vuole.»

«Il popolo non voleva le stesse cose che volevate voi. Avete perso.»

«Ha perso il mondo, la specie umana ha perso. Volevamo evitare la mediocrità, volevamo fare un salto verso l’eccellenza, e in molti casi ci siamo riusciti: molta gente ha beneficiato dei nostri sforzi. Ma è vero, abbiamo perso la guerra.»

«Siete dei predatori, rubavate, vi prendevate gli sforzi e le capacità altrui. Rubavate la vita agli altri, anche se, chiaramente, non la chiamavate vita, lo chiamavate materiale umano.»

Il mio tono non gli piacque, ma ci passò su. D’altra parte non poteva fare altro. O quello o una scenata nel suo ristorante preferito.

«Il controllo a volte è sfuggito, ma mai con il mio consenso.»

«Uccidere milioni di persone per lei è lasciarsi sfuggire il controllo?»

Pensava mentre masticava il mollusco dell’ostrica.

«Lei sa chi sono? Non si sarà confuso per caso?»

«Non credo. Fredrik e Karin Christensen, Otto Wagner, Alice, Anton Wolf, Elfe, Aribert Heim o il Macellaio di Mauthausen, Gerhard Bremer, Sebastian Bernhardt e qualche altro. È una buona storia, questo paese diventerà famoso. I suoi uomini, Martín, Alberto e gli altri non potranno fermare la stampa.»

«La stampa non ci spaventa.»

«E la giustizia?»

«Cosa può farci la giustizia arrivati a questa età?»

«Non mi riferisco a questa giustizia, ma a quella che fa sì che ci sia un equilibrio nell’universo, che ci sia la giusta quantità di elio perché possiamo sopravvivere e la proporzione necessaria di bene e male, di sofferenza e piacere per poter vivere. Voi avete rotto questo equilibrio.»

«Ora», disse sporgendosi verso di me per quanto poteva, «è facile giudicare, perché abbiamo perso, è andata male. Ma si immagini per un momento se avessimo vinto. Si sarebbe ottenuto l’equilibrio di cui parla, perché l’equilibro è ordine, bellezza e purezza.»

«Ti ho cercato per molti giorni, avevo bisogno di parlarti. Ho bisogno che tu mi capisca.»

Sebastian annuì e non gli sembrò opportuno prendere un’altra ostrica. Mise le mani sulla tovaglia di lino.

«Non c’è più tempo per fare marcia indietro. È il momento della verità. Voglio sapere se capisci la mia sofferenza, la mia umiliazione, il mio dolore per essere stato ridotto a materiale umano.»

Mi guardò negli occhi, mi prendeva molto sul serio.

«Non mi fa piacere che lei abbia sofferto, ma in momenti storici di trasformazione profonda della realtà non c’è tempo per separare il grano dal loglio.»

«E il tuo dovere era trasformare la realtà, fare in modo che la realtà fosse un’altra.»

«Esatto. Ho sempre pensato di essere venuto al mondo per cambiarlo. La mia vita aveva un obiettivo, una missione, altrimenti sarebbe stato assurdo nascere. Il nazionalsocialismo mi ha dato l’opportunità di agire.»

«Avevi un mondo ideale in testa.»

«Sì, un bel pianeta.»

«Nel campo dove sono stato io non c’era nessuna bellezza. Ti sembrano belli gli esperimenti che Heim faceva su di noi?»

«Non abbiamo avuto il tempo di vedere i risultati. È il risultato quello che conta. Magari in un altro momento della storia...»

«Né tu né io ci saremo.»

«Una volta visitai il tuo campo», disse passando anche lui al tu per la prima volta. «La primavera dell’anno in cui dici di essere stato lì aveva nevicato molto.»

Era terribile condividere qualcosa con quell’uomo, ma io ero uno di quelli che poteva a malapena alzare la pala quella primavera.

«Non pensai alla vostra sofferenza, non pensai neanche a voi. Vi vedevo senza pensare, le cose stavano così. Facevamo parte di un sistema, di un’organizzazione. Io portavo l’uniforme delle ss e voi quella a righe dei prigionieri. Eravamo dentro un ordine stabilito, impossibile da rompere. Non c’era niente a cui pensare. Avevamo raggiunto un equilibrio, capisci?»

«E ora cosa pensi? Il mondo è cambiato senza di voi.»

«È stato un duro colpo perché sono assolutamente convinto che la società si sia sbagliata. Sono convinto che ora tutto sarebbe più perfetto.»

«E capisci che vi odio e che desidero vedervi soffrire più di quello che ho sofferto io in questi ultimi giorni della vostra vita?»

«Dovrei capire che sto per essere morso da un cane rabbioso? »

«Ma io non sono un cane. Io non ti morderei, farei ben di peggio.»

«Quello che io ho fatto a te non l’ho fatto per motivi personali, ma per ragioni superiori che vanno al di là del bene e del male. Per questo tu ti comporti come un cane e io no.»

Parlava sul serio, era convinto di quello che diceva. Tutti loro si erano aggrappati a idee e programmi per non ammettere le loro colpe.

«Non senti alcuna responsabilità per tutti quei morti, per quei milioni di morti ammazzati?»

«La colpa, i rimorsi e il pentimento frenano il progresso dell’umanità. Provi molti rimorsi quando squartano una vacca, quando tosano una pecora per prenderle la lana? Se si scorge con chiarezza l’obiettivo e il cammino per raggiungerlo e quell’obiettivo è globalmente buono, come si dice oggigiorno, allora non ci sono dubbi.»

«E credi che io dovrei capire te?»

«Sarebbe quasi impossibile, tu sei stato dalla parte delle vittime.»

«Quello che mi sembra impossibile è che non ci sia stato nessuno fra voi che non abbia provato rimorso per aver partecipato a quelle atrocità.»

Stette a pensare qualche minuto. Non aveva più caffè e prese un po’ di champagne.

«Quasi nessuno prova rimorso per ciò che ha fatto, ma rimpianto per ciò che non ha fatto e che morirà senza aver fatto. È il caso della povera Elfe, che diceva di bere per dimenticare, ma può darsi che non fosse la verità. Si cercano sempre delle scuse per giustificare i propri vizi.»

La povera Elfe. Disse il suo nome senza darle importanza, perché non poteva immaginare che io la conoscessi. “Sebastian”, pensai, “non sai tutto.”

«E adesso non beve più?»

«Se continua a bere lo fa da un’altra parte, senza obbligarci più a sopportare la sua debolezza mentale.»

«Non so se dici la verità, ma se non la dici a me adesso l’impronta che lascerai su questo mondo sarà sempre evanescente. Non sarai mai stato del tutto reale.»

Annuì piegando leggermente la testa. Stava prendendo molto sul serio la nostra conversazione.

«Non hai tutti i torti. Ora, bene o male, siamo invisibili. Nessuno ci vede, a parte te ovviamente.»

«Se adesso mi metti contro tutti i tuoi», dissi, «che tu abbia fatto quel che hai fatto in nome di una causa maggiore sarà solo una bugia. Se mi uccidi sarà per un fatto puramente personale, perché vi ho scoperti e ho messo in pericolo la vostra vita.»

Annuì di nuovo. Non sapevo se ciò significava che mi avrebbe ucciso o che avevo ragione, così aspettai un segnale.

«C’è una ragazza che è entrata da poco nel gruppo», mi rivolse uno sguardo inquisitorio che mi fece venire la pelle d’oca. «Si chiama Sandra. Non ha idea di dove si è infilata, non è dei nostri. È una rosa fresca, che in poco tempo marcirà nel mondo mediocre in cui le è toccato vivere. Si troverà un lavoro che non la soddisferà, un marito, avrà dei figli - a dire il vero credo sia già incinta - e invecchierà senza godersi la vita. Forse possiamo salvarla da tutto questo. Bisogna rendersi utili. Non tutti sanno come salvarsi. La gente non conosce il proprio destino.»

Tacqui, finsi che il nome di Sandra non mi dicesse nulla e di non prestargli particolare attenzione. L’Anguilla gli aveva detto che Sandra si vedeva di nascosto con me? E, in caso contrario, perché non lo aveva fatto?

Lo lasciai che ordinava un altro caffè. Aveva una salute di ferro. Io ero abbastanza nervoso, mi ero dovuto controllare così tanto per non dargli un pugno e rompergli il bicchiere in testa, che adesso mi tremavano le mani. Fuori, in macchina, c’era Martín che lo aspettava e quando mi vide allontanarmi mi seguì con lo sguardo. Ero quasi sicuro che Sebastian non gli avrebbe detto chi ero perché in fondo io venivo da un mondo che lui aveva perso e avrebbe avuto voglia di parlare di nuovo con me. Durante la conversazione, in alcuni momenti, mi ero chiesto che cosa avrebbe detto e fatto Salva al posto mio, e credo che avrebbe approvato il mio comportamento solo a metà.

Salva era molto più furbo di me e sicuramente avrebbe messo Sebastian alle corde, gli avrebbe fatto venire dei dubbi, lo avrebbe demolito dall’interno. Nello stesso modo in cui mi aveva saputo dare coraggio tante volte, nello stesso modo in cui quando cercai di suicidarmi mi convinse che la vita meritava sempre di essere vissuta. Avrebbe mostrato a Sebastian che il suo piano era stato sempre, fin dall’inizio, un’enorme idiozia. Io invece gli avevo messo a disposizione delle armi per diventare più forte.

Mi sentivo malissimo. Un’altra occasione persa. Lo avevo lasciato a sorseggiare il suo champagne pensando a ciò che noi vincitori avevamo perso per essere stati così sciocchi. Arrivai alla macchina. Costeggiai il lussuoso complesso residenziale di Sebastian e pensai che almeno l’operazione Heim stava dando i suoi frutti. Parlare non era mai stato il mio forte. Mi piaceva parlare con Raquel di sciocchezze, di quello che era successo mentre scendevo a comprare il giornale, commentare le notizie della televisione, parlare di un film, dirle qualche carineria e che lei mi desse dell’idiota con lo stesso tono con cui mi avrebbe chiamato amore. Usare sul serio le parole mi aveva sempre scoraggiato un po’, perché mi venivano in mente Salva e la sua magnifica dialettica. Sebastian avrebbe dovuto parlare con Salva, non con me.

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